C’è chi lo ama e chi lo detesta: il punto esclamativo, come quello interrogativo, è spesso fonte di discussione tra i letterati. La funzione del punto esclamativo è di portare l’accento su un’emozione, enfatizzare la sorpresa, la paura, la gioia e altre ancora. Ci sono autori che lo evitano e altri che ne fanno un uso generoso.
Cosa ci può dire l’impego, magari eccessivo, del punto esclamativo da parte di chi non è scrittore? La prima funzione della scrittura è proprio quella espressiva, attraverso il tratto grafico. Scrivere è un modo di testimoniare la nostra esistenza lasciando sul foglio una traccia, come un’impronta del nostro esserci; dire “io ci sono” e gridarlo attraverso il gesto grafico. Lo scrivere può anche essere un modo di scaricare un bisogno psicomotorio, un’esuberanza che deriva da emozioni non regolate e condivise, il bisogno di gridare al mondo il dolore o la felicità eccessivi. Se consideriamo che il punto esclamativo si chiama così dal latino clamare, gridare, comprendiamo che questo segno grafico è quello che naturalmente si presta ad adempiere alle succitate funzioni primarie della scrittura.
Il punto esclamativo è nato nel medioevo, come il castello di San Vigilio a Bergamo, dove c’è una cannoniera sormontata da una feritoia che, insieme, ricordano il segno grafico di cui stiamo parlando, veicolando un’idea di aggressività e difesa armata. Guardando però attraverso le fessure della fortificazione, nasce spontanea la considerazione che originariamente il punto esclamativo era noto come punto ammirativo.