IL BARONE Werner von der Schulenburg fra storia, passioni e intrighi – Recensione di Rossella Coarelli

«Quando al governo ci sarà lui, vi prenderemo a calci in culo e i treni saranno in orario»: questa la frase pronunciata da un fascista della prima ora, con cui il romanzo storico “Il Barone”, di Sibyl von der Schulenburg, ci conduce senza indugio nell’ottobre del 1922.

Da testimonianze e fonti di prima mano tratte dall’archivio privato del padre, l’autrice ricostruisce contesti e vicende che ci riportano agli anni devastanti che videro in Europa il dominio del Nazifascismo.

Il racconto si snoda attraverso l’intensa vita del genitore dell’autrice, Werner von der Schulenburg, esponente della nobiltà tedesca, raffinato intellettuale e letterato che, intrapresa la carriera diplomatica, si ritrovò a lavorare e soggiornare In Italia dal 1926 fino alla guerra, per lunghi periodi, in qualità di Procuratore della Centrale per la Propaganda Turistica, e in veste di giornalista e scrittore.

Nel riportare le prime reazioni al nazismo, viene messo in luce l’atteggiamento di Hitler «nei confronti della casta nobiliare: una realtà che gli era estranea – si legge – che sfuggiva al suo controllo e che tradizionalmente occupava i vertici militari» e, accanto, l’intolleranza del futuro fuhrer di fronte al potere economico degli ebrei tedeschi.

Dopo i primi gravi soprusi contro questi, il diplomatico esprime apertamente la sua disapprovazione verso il nazionalsocialismo, il cui «dominio assoluto avrebbe rappresentato una piena catastrofe, uno spaventoso sfacelo per la Germania».

Emerge fin dall’inizio il disprezzo verso Hitler e, al contempo, l’amarezza nell’assistere all’adesione al partito nazista da parte degli ufficiali e gli alti gradi militari.

Pienamente identificato con la classe a cui appartiene, Werner accarezza il sogno di una rinascita della sua patria, di una Germania che risorga dall e ceneri della sconfitta nella Grande Guerra, ma rivendica per la nobiltà un diritto ereditario alla leadership.

Giurista e uomo di lettere, egli non può accettare la brutalità immorale di cui fa uso Hitler per scalare il potere: la violenza è inconciliabile con i suoi princìpi, così come il ricorso a una immaginaria “superiorità della razza” invocata a fronte dei veri e gravi bisogni del popolo, da Schulenburg riassunti con: “Minestra calda e salsicce”.

Il Barone si muove nei palazzi e nei salotti che contano, a stretto contatto con l’élite culturale e con i potenti della classe politica; nell’ osservare i profondi mutamenti sociali, i consensi, le alleanze, i sospetti e le disfatte, egli annota e commenta. Merita rilevare la ricostruzione dei dialoghi, di grande efficacia, nonché il pensiero critico del protagonista che, nel riflettere su di sé e sui vari attori incontrati sulla scena politica, ‘suona’ autentico.

L’ottimo rapporto instaurato nel 1922 con Margherita Sarfatti, ebrea amica e consigliera di Mussolini, attraversa il racconto dettagliatamente: interessanti i colloqui intercorsi tra i due nel commentare, in via confidenziale (telefonate e messaggi in codice), la criticità del momento storico.

Allo stesso tempo, si può davvero godere del talento con cui il Barone, ricorrendo all’aneddoto, definito «di per sé una piccola opera d’arte», tratteggia accurati ritratti dei tanti personaggi incontrati nella vita.

Sull’abilità di cogliere e restituire con poche pennellate immagini di grande effetto bastino due esempi: il tè offertogli dal “tartaro” Lenin, nel 1917, il cui viso «era un legno vivo intagliato da un grande artista di marionette, così brutto, così malvagiamente brutto […] Il volto non era cresciuto in modo organico, bensì, si sarebbe detto vulcanico, un cratere vulcanico con due triangoli […] sotto alla fronte bassa scintillavano gli occhi piccoli,
incastonati nelle ossa di cui sotto la pelle grigiastra si intravedeva il biancore. Guance vuote e infossate. Era l’immagine dell’Asia»;

o l’incontro con Mussolini a Palazzo Chigi nel 1927: «Mi ricevette Napoleone. Non molto più tardi venni esaminato da un maestro elementare, dopo di che ebbi a che fare con un capitano d’industria che, nel corso del colloquio, cedette il posto a un cardinale. Dopo quest’ultimo, parlò in modo compassato e bello un umanista, e la chiusura fu fatta da una vecchia, bonaria signora con molta comprensione umana e una punta di cattiveria».

Antinazista ma non antifascista, Schulenburg esprime nei confronti di Mussolini apprezzamenti di stima; sensibile all’ evocazione dell’antico Impero, gli riconosce caratteristiche e doti che in nessun modo riesce a rintracciare in Hitler.

Ma, quando si intravede un’alleanza tra i due paesi, il diplomatico manifesta tutte le sue perplessità: «Riconosco tanti pregi all’opera del Duce e mi piace annoverarlo tra i miei migliori conoscenti ma, come esiste un misticismo militare prussiano, così vedo sorgere quello fascista e io ne prendo le distanze».

Mano a mano che la storia procede negli anni di guerra, affiora il ritratto di un uomo nel quale il ‘sentirsi’ antinazista comprende l’accettazione dei relativi rischi.

Normalità e pericolo convivono in una separatezza appena sfumata.

‘Carta, penna e donne’: le intime passioni del Barone, sempre innamorato di qualche bella fanciulla o, quasi avulso dalla realtà, intento a cercare nelle botteghe carta e inchiostro di buona qualità.

Nel continuare a rincorrere il suo ideale “neoclassico” improntato ai valori dell’armonia, dell’equilibrio e della bellezza, egli trova spesso rifugio nella creatività della sua felice vena letteraria, nella solitudine e nella quiete del Lago Maggiore, al riparo dalla vista della ferocia antisemita che, in qualche momento, arriva a farlo vergognare di essere tedesco.

Tra le doti personali che “fanno” la forza di Werner, l’ironia è una risorsa che non viene meno anche nei momenti più drammatici quando, a causa di severi giudizi e atteggiamenti di sfida, perfino verso Goebbels, Schulenburg viene considerato dalla GESTAPO persona “non gradita” e pericolosa; diviene poi elemento da sopprimere quando i nazisti cominciano a intuire che è uno dei responsabili (insieme con i suoi tre cugini, che pagheranno con la vita) dell’attentato “Valchiria”, organizzato nel 1944 per eliminare Hitler.

Costretto ad una rocambolesca fuga, egli è inseguito anche da chi, su altro fronte, lo sospetta di essere una spia nazista.

Un dubbio, questo, che, come in un “poliziesco”, a un certo punto del racconto potrebbe sfiorare il lettore.

In un romanzo storico, chi scrive deve essere più aderente possibile al vero, chi legge può chiedersi fino a che punto la narrazione sia fedele ai fatti realmente accaduti: il testo è corredato di un’appendice con testimonianze storiche.

Riconosciuto come “perseguitato” dal regime nazista e per questo divenuto ammalato di una grave affezione cardiaca, nel 1955 Schulenburg fu risarcito dei gravi danni subiti.

Tra “passioni e intrighi”, l’autrice restituisce, dunque, un ritratto che, tra i tanti pregi, ha quello di non indurre in equivoci interpretativi: il Barone difende la sua appartenenza nobiliare; sebbene si muova in ambienti che sono lontani dal popolo e dai disagi che questo vive, è animato da un profondo umanesimo.

Egli rappresenta quella cerchia di aristocratici e intellettuali che, all’avvento di Hitler, prende le distanze, passando da un imbarazzo iniziale a un profondo disprezzo e avversione.

Immerso in una realtà in cui ogni cosa, in primo luogo la cultura, è totalmente asservita alla propaganda nazista, Schulenburg resta fisso a una sua nostalgica visione elitaria della società, aspira a una restaurazione aristocratica.

Nella degenerazione del ruolo-guida in furia disumana, nella distruzione di ogni legittimità del diritto e nell’ offuscamento delle coscienze egli vede uno smisurato e insostenibile tradimento della ragione.