Bisogno di giustizia

Ci sono attività di volontariato che riscontrano le simpatie del “grande pubblico”, come l’assistenza ai bambini, alle donne maltrattate, ai migranti, ai cani, mentre ci sono settori che fanno fatica a esistere perché non godono dei favori della psicologia popolare come ad esempio il lavoro nelle carceri. Il desiderio di vendetta rende miopi anche le persone più acculturate e assennate, cresce il bisogno di buttare via la chiave, e la paura del carcerato diventa una psicosi collettiva. Nelle carceri sono rappresentati i casi più disparati: c’è il colpevole di associazione a delinquere di stampo mafioso, l’assassino occasionale (magari passionale), il ladro, il rapinatore, l’estorsore, il sex offender e varie altre tipologie di reato. Non sono tutti uguali, alcuni sono anche innocenti, e per molti ci sarebbe la possibilità di un recupero, una reintegrazione nel tessuto sociale che aiuterebbe sia loro che la cosiddetta “società libera”.

Per chi non sente la spinta empatica nei confronti di chi è chiuso tra le sbarre, offro sempre una motivazione utilitaristica invitando a considerare che il 95% dei detenuti (attualmente circa 60.000) lascerà, prima o poi, il carcere e le statistiche ci dicono che la recidiva si attesta attorno al 75% mentre in carceri come Bollate, dove si lavora per il recupero sociale, il tasso scende al 19%.

Riflettere sul concetto di giustizia è un esercizio inutile poiché il massimo cui possiamo ambire, senza studi approfonditi, è la comprensione dell’equità, quella che i giuristi chiamano ‘la giustizia del caso singolo’ e che, nel nostro ordinamento giuridico, ha natura eccezionale. Dovremmo quindi accettare anche sentenze che ci sembrano ingiuste, inique e contro ogni logica, ma che sovente sono frutto di giudizi giusti, equi e logici poiché applicano legge e diritti umanitari in una mistura resa possibile dall’esperienza del giudicante che agisce sulla base degli elementi a sua disposizione.

Un esempio può essere dato da un recente caso penale che ha visto imputato un giovane di diciassette anni per l’omicidio di un clochard. In attesa di giudizio, il ragazzo era stato affidato a una struttura di recupero e custodia, una comunità, dove gli educatori sono riusciti a innescare nel minore un meccanismo di autocritica e revisione degli eventi tale da portare a un ravvedimento. Oggi il giovane è un’altra persona e per questo la giustizia ha ritenuto opportuno concedergli un’occasione di redenzione, una rinascita, che sarà possibile tra tre anni ma solo se avrà dimostrato di meritarlo. Che senso avrebbe oggi incarcerare un giovane che è stato già “rieducato” ai sensi dell’art. 27 della costituzione? Chi non sa argomentare torna sempre al punto di partenza, la morte di un uomo –evento peraltro non voluto dal ragazzo e occorso in quanto la vittima restò incastrata– ed esprime il bisogno di vedere la perdita della vita umana compensata dalla sofferenza a vita di chi l’ha causata. Uno stesso comportamento è valutato in maniera diversa a seconda degli esiti che ha sortito, esiti sovente determinati dal caso o da una serie di concause imprevedibili. Quanti hanno guidato in stato di ebbrezza o distratti dal cellulare e il caso ha voluto che non uccidessero nessuno? Quanti hanno fatto scherzi idioti o picchiato qualcuno e la fortuna li ha preservati dal commettere un omicidio?

Pregiudizi, ipocrisia ed etichette giocano, insieme, contro logica e buon senso, là dove la sete di vendetta è chiamata bisogno di giustizia. Il discredito di cui ha sofferto la magistratura italiana non ha certo giovato al senso di sicurezza del cittadino che ha eretto muri di difesa costruiti con mattoni di false competenze, dei veri monumenti all’imperizia rafforzati dal consenso della massa.

Ora occorre fare qualche passo indietro, non per prendere un’altra rincorsa per sbattere la testa contro il muro, ma per cercare una via che porti all’apertura mentale del cittadino medio, di quello che non si ferma neppure un secondo a riflettere sulle cose, ma naviga nel mare del “sentito dire” lasciandosi trascinare dalle ondate emotive.

Riusciremo mai a educare anche lui?