Verbalizzare il dolore, la paura, dare un nome alle emozioni negative che stringono il cuore, aiuta a superarli. La sofferenza trova sollievo uscendo dai suoi limiti, i confini che non hanno né forma né nome poiché, una volta individuato il muro della diga, il più è fatto: l’emozione può scorrere libera e dissolversi.
Le emozioni positive sembrano seguire un corso diverso. Gioia, felicità, euforia, contentezza, sono sensazioni senza confini, attimi d’immensità in cui si entra in una dimensione oltreumana finché qualcuno non chiede: “Sei felice?”. Per chi è abituato ad ascoltare e dare un peso alle parole, quello è il momento in cui l’emozione si frantuma sull’incapacità di spiegare i limiti dell’immenso.
Non l’amore tout-court che ci avvicina a Dio e neppure la sofferenza a esso collegata, ma l’estasi che procura, il rapimento che conduce all’annullamento del sé; è uno stato psichico concesso raramente, dà un senso di completezza ed è talvolta sperimentato in sogno. Provare a descrivere quest’esperienza equivale a ridurla.
La nostra cultura sembra aver bisogno di definire ogni cosa, la “sensazione indefinita” non è più concessa, l’amore è un insieme di frasi da cioccolatino che iniziano con “L’amore é…”. La domanda “Quanto ti piace?” arriva sempre nel momento meno opportuno e serve a rassicurare chi la pone. Ci sono persone che non sanno godere della bellezza di un tramonto senza commentarlo, e se ti vedono sorridere ti dicono: “Sei contenta, eh?”. Quando ti trovi nello stato di grazia concesso dall’abbraccio silenzioso al tuo oggetto transizionale, ti riportano a terra per chiederti: “Ma sarà amore vero?”.
Nel rispetto del principio che “nulla posiamo fare per cambiare l’altro, ma tutto per cambiare noi stessi”, ho deciso di chiudere la mente a questo genere di domande, di considerarle alla stregua di intercalari, tipici degli analisti del piacere.